La storia non fa sconti agli innamorati, nemmeno a quelli in buona fede. Israele viene osservato con lo sguardo di chi sa che i miti nazionali, se non vengono periodicamente demoliti, diventano prigioni. E Foa li smonta uno a uno, senza compiacimento e senza odio. Nasce a questo punto una domanda semplice e spietata: può uno Stato sopravvivere tradendo i valori su cui è nato? La risposta non è gridata, ma il lettore la sente incombere pagina dopo pagina. La forza militare, sembra dirci Foa, non salva una civiltà se questa smette di interrogarsi.
Foa sa che criticare Israele dall’interno del mondo ebraico significa esporsi all’accusa peggiore: il tradimento. Ma rifiuta il ricatto morale secondo cui la memoria della Shoah dovrebbe garantire un’immunità politica eterna. Qui il libro diventa scomodo, perché toglie alibi, non ne concede. Infine, c’è il rigore quasi notarile dei fatti: dati, leggi, scelte politiche, conseguenze. Nessuna indulgenza per la retorica, né da una parte né dall’altra. Il lettore non viene guidato per mano verso una tesi: viene messo davanti a un dossier morale. E deve decidere da solo.
Il suicidio di Israele non offre soluzioni semplici, e non consola. Ma fa ciò che la buona saggistica dovrebbe sempre fare: disturbare le certezze dei giusti e inquietare i sonni tranquilli. È un libro che non piacerà a chi cerca schieramenti, ma sarà inevitabile per chi cerca di capire.
E come spesso accade con i libri onesti, non si chiude con una risposta, ma con una responsabilità: quella di non voltarsi dall’altra parte, nemmeno quando la storia riguarda chi pensavamo di dover difendere per principio.
Esistono libri che nascono per convincere e altri che nascono per costringere a pensare. Il suicidio di Israele appartiene senza esitazioni alla seconda categoria. Non persuade, non seduce, non blandisce. Espone. E, nel farlo, toglie terreno sotto i piedi tanto ai tifosi quanto ai detrattori. Anna Foa non scrive per il pubblico delle piazze né per quello dei salotti ideologici: scrive per chi accetta che la storia sia un dispositivo severo, che non assolve in base alle intenzioni e non condanna per appartenenza.
Il titolo stesso è una dichiarazione di metodo prima ancora che una tesi. “Suicidio” non è l’atto improvviso di un gesto disperato, ma un processo: lento, cumulativo, spesso giustificato da ragioni contingenti che, sommate, diventano sistema. È un concetto storico, non un insulto politico. Foa lo usa con la cautela di chi sa che le parole, quando sono sbagliate, fanno danni; e proprio per questo le sceglie con precisione chirurgica.
Il primo equivoco che Foa smonta è quello più comodo: l’idea che questo sia un libro “contro” Israele. Al contrario, è un libro scritto da dentro la storia ebraica, da una studiosa che non deve dimostrare la propria legittimità morale. Questo dettaglio non è ornamentale: è strutturale. Le consente di parlare senza chiedere permesso e senza alzare la voce. Le consente, soprattutto, di non dover compensare la critica con rituali di fedeltà preventiva.
La storia non è un tribunale delle intenzioni, ma un bilancio delle conseguenze. Israele viene osservato come si osserva qualsiasi altro Stato: nella distanza tra i principi fondativi e le pratiche consolidate. La domanda non è se Israele abbia diritto a esistere – questione che Foa considera chiusa dalla storia e dal diritto internazionale – ma se stia riuscendo a restare fedele alla propria promessa originaria.
Il cuore del libro è proprio questo scarto. Israele nasce come risposta a una persecuzione senza precedenti, come rifugio e come progetto politico fondato su valori dichiarati: democrazia, pluralismo, diritto. Foa ricostruisce questa genesi senza indulgenza mitologica, ricordando che anche le origini furono conflittuali, ma sottolineando che esisteva un orizzonte etico condiviso, una direzione. Il problema, sostiene, non è la sicurezza – necessità reale in una regione ostile – ma la trasformazione della sicurezza in ideologia permanente. L’occupazione dei territori, da misura eccezionale, diventa normalità amministrativa; l’emergenza diventa struttura; la temporaneità si cristallizza. È qui che il “suicidio” prende forma: non come resa al nemico, ma come erosione interna della legittimità morale.
Il punto è scomodo perché sposta la responsabilità dall’esterno all’interno. Non sono i nemici di Israele a minarne l’esistenza; è l’incapacità di distinguere difesa da dominio. È la rinuncia progressiva a una soluzione politica in favore di una gestione militare senza uscita. È la confusione, deliberata o meno, tra identità e sovranità. Emerge la consapevolezza che i conflitti non si spiegano con l’oggi, ma con le stratificazioni del tempo. Foa attraversa il Novecento e arriva al presente mostrando come ogni scelta non risolta ritorni sotto altra forma. Le occasioni mancate – diplomatiche, politiche, simboliche – non scompaiono: si accumulano. E il costo cresce.
In questo senso, Il suicidio di Israele è un libro profondamente anti-giornalistico nel senso peggiore del termine: non rincorre l’evento, non cavalca l’indignazione. Fa l’operazione opposta, più faticosa: rallenta. Contestualizza. Ricorda. E così facendo sottrae il lettore alla tentazione dell’istantaneità morale. La questione palestinese, ad esempio, non viene ridotta a una disputa di colpe immediate. Foa ne ricostruisce l’evoluzione come problema politico irrisolto, aggravato da scelte che hanno progressivamente reso impraticabile una soluzione a due Stati. Non c’è compiacimento, né assoluzione automatica. C’è la constatazione, documentata, che l’asimmetria di potere produce asimmetria di responsabilità. Criticare Israele dall’interno del mondo ebraico significa esporsi a una scomunica morale che precede ogni argomento. Foa accetta il rischio e lo neutralizza con la serietà del lavoro storico. Non urla, non provoca; ma non arretra di un millimetro.
Uno dei passaggi più forti del libro è il rifiuto del ricatto memoriale: l’idea che la Shoah, tragedia fondativa e irriducibile, debba funzionare come scudo permanente contro ogni critica politica. Foa non relativizza la Shoah – operazione che sarebbe intellettualmente disonesta – ma rifiuta di trasformarla in un lasciapassare etico. La memoria, sostiene implicitamente, non è un capitale da spendere; è una responsabilità da onorare.
Questo passaggio è centrale perché ribalta una retorica consolidata. Non è antisemitismo chiedere coerenza a uno Stato che si definisce democratico. Al contrario, è una forma di rispetto per la storia e per le vittime. Qui il libro diventa davvero scomodo, perché toglie alibi sia a chi critica Israele per principio sia a chi lo difende per riflesso.
Nel metodo di Foa emerge una cura per i fatti prima delle narrazioni. Leggi, decisioni governative, assetti istituzionali, conseguenze concrete. Non slogan, ma documenti. Non intenzioni, ma risultati. È un approccio che costringe il lettore a misurarsi con la realtà, non con le proprie simpatie.
Quando parla della deriva interna della democrazia israeliana, Foa non indulge in apocalissi. Mostra come il progressivo rafforzamento di componenti nazional-religiose abbia inciso sull’equilibrio dei poteri, sulla laicità dello Stato, sul trattamento delle minoranze. Non grida al fascismo, non usa etichette facili. Ma il quadro che emerge è quello di una democrazia sotto stress, che rischia di non riconoscersi più.
Il punto non è stabilire un parallelo storico improprio, ma riconoscere un pattern: quando uno Stato si definisce per esclusione e non per cittadinanza, quando l’identità prende il posto del diritto, il margine democratico si restringe. È una lezione generale, applicabile ovunque, ma qui resa particolarmente drammatica dal contesto.
Chi cerca in questo libro una roadmap politica resterà deluso. Foa non offre piani di pace, non disegna confini, non distribuisce colpe in modo aritmetico. E fa bene. Il suicidio di Israele non è un manuale di policy, ma un’analisi storica con implicazioni morali. La sua ambizione non è risolvere, ma chiarire. Questo è, per molti lettori, il punto più difficile da accettare. Viviamo in un tempo che pretende soluzioni rapide e slogan efficaci. Foa propone l’opposto: la fatica del dubbio informato. Chiede al lettore di accettare che alcune scelte, una volta fatte, riducono il ventaglio delle opzioni future. Che la storia non offre reset. Che la forza, quando diventa abitudine, perde la capacità di proteggere.
Il suicidio di Israele non mette sullo stesso piano tutto e tutti, ma riconosce che il potere comporta responsabilità specifiche. Conta perché rifiuta la polarizzazione e costringe a pensare in termini di processi, non di eventi. Conta perché restituisce alla critica politica una dignità che non sia insulto né apologia. È un libro che non piacerà a chi cerca conferme. Scontenterà i tifosi, infastidirà i custodi dell’ortodossia, deluderà chi vuole una narrazione rassicurante. Ma proprio per questo è un libro necessario. In un dibattito spesso dominato da slogan, Foa rimette al centro la storia come strumento di verità scomoda.
Alla fine, il “suicidio” di cui parla Anna Foa non è un destino inevitabile, ma una possibilità concreta. Una possibilità che nasce dall’accumulo di scelte che, prese singolarmente, sembrano razionali, ma che nel loro insieme producono una contraddizione insanabile. Il merito del libro è rendere visibile questa contraddizione senza trasformarla in spettacolo. Come tutti i libri onesti, non consola. Ma chiarisce. E chiarire, in tempi di rumore, è già un atto politico nel senso più alto del termine.

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