La storia di un uomo è sempre anche la storia di una collettività. Quando Giordano Bruno Guerri intitola il suo libro su Mussolini semplicemente Benito, non lo fa per umanizzare un dittatore, ma per collocarlo nel suo habitat naturale: l’Italia, e più precisamente gli italiani. Il sottotitolo, Storia di un italiano, suggerisce una chiave di lettura che va oltre la biografia: Mussolini non è solo il protagonista, ma anche lo specchio in cui un’intera nazione si è osservata, compiaciuta e a volte ingannata. La sua parabola non è un incidente isolato, ma un esperimento di laboratorio su larga scala, in cui un popolo e il suo capo hanno interagito in un ciclo continuo di fascinazione, consenso e cecità.
Guerri non racconta Mussolini come un mostro calato dall’alto nella storia. Lo descrive come il prodotto di una serie di condizioni: geografiche, culturali, psicologiche. Cresciuto nella Romagna di fine Ottocento, in una famiglia povera ma politicamente vivace, il giovane Benito respira fin da subito un’aria di ribellione e ambizione. È un ragazzo che impara presto l’arte di parlare alla pancia della gente, di sedurre con le parole. Ma ciò che lo distingue non è tanto il contenuto, quanto la capacità di adattarsi, di trasformarsi da socialista rivoluzionario a leader nazionalista, da pacifista a interventista, da tribuno a dittatore. Questa flessibilità ideologica – o opportunismo, a seconda di come la si guardi – diventa la sua arma più potente e, alla fine, la sua stessa rovina.
Il libro non segue semplicemente la cronologia degli eventi. È un affresco che intreccia immagini e parole, aneddoti e analisi, per restituire la complessità di un uomo che era insieme visionario e improvvisatore. Guerri mostra come Mussolini sapesse usare la modernità: il cinema, la radio, la propaganda di massa. Sapeva che in un’epoca di alfabetizzazione crescente e comunicazioni veloci, il potere non si conquistava solo con le leggi e i decreti, ma con il mito. Il fascismo, nelle sue mani, non fu mai un’ideologia monolitica. Fu piuttosto un vestito cucito giorno per giorno, per adattarsi alle paure e alle speranze degli italiani. In questo senso, Guerri distingue tra “fascismo” e “mussolinismo”: il primo, un insieme di principi politici, di cui lo stesso Mussolini non si sentiva poi così espressione, spesso incoerenti e mutevoli; il secondo, un culto della personalità, un legame emotivo diretto tra il capo e il popolo.
Qui sta forse la parte più inquietante del racconto. Il successo del “mussolinismo” non si spiega solo con la capacità manipolatoria del leader, ma con la disponibilità degli italiani a lasciarsi sedurre (basti pensare a tutta la corrispondenza adulatrice e questuante. Non si trattò di una sottomissione puramente forzata: milioni di persone trovarono in Mussolini un simbolo rassicurante, un padre severo ma ammirato, un italiano “come loro” che era riuscito a farsi valere nel mondo. Guerri non assolve il dittatore, ma non risparmia neppure il popolo che lo sostenne. Ed è qui che il libro diventa anche un’analisi antropologica: le dinamiche di potere non sono mai a senso unico, ma si alimentano di un tacito patto tra governanti e governati.
Il volume è arricchito da un apparato iconografico imponente: fotografie in formato grande, che non servono solo da illustrazione, ma diventano parte del racconto. Gli sguardi, le posture, le folle in delirio o i volti stanchi della guerra parlano quanto il testo. Si ha l’impressione di sfogliare un album di famiglia, ma in cui il parente ingombrante è la Storia stessa. E, come in ogni album, c’è una sottile nostalgia: non per il regime, ma per un’epoca in cui la Storia sembrava avere un ritmo chiaro, scandito da figure titaniche, prima che l’epoca della complessità dissolvesse i contorni.
Guerri attraversa i momenti chiave con uno sguardo che alterna distanza critica e coinvolgimento narrativo. L’ascesa fulminea dopo la Prima guerra mondiale, l’abilità nell’usare la paura del bolscevismo per conquistare le élite, la Marcia su Roma che fu più teatrale che rivoluzionaria, la costruzione di un consenso fatto di opere pubbliche e retorica imperiale. Ma dietro le quinte, si intravede un uomo spesso solo, circondato da uomini senza spina dorsale pronti a mentire in cambio di potere, incapace di delegare, convinto di poter gestire ogni dossier personalmente. Questa centralizzazione estrema del potere, che inizialmente appariva come forza, si trasforma in un meccanismo paralizzante quando l’Italia entra nella guerra.
La tragedia si compie negli anni Quaranta. La guerra scelta per calcolo politico si rivela un errore fatale, e il capo che aveva incarnato la nazione diventa improvvisamente il bersaglio della frustrazione collettiva. Il legame tra Mussolini e gli italiani, costruito in due decenni, si spezza in pochi mesi. Guerri descrive questa frattura con lucidità: la stessa folla che aveva esultato per lui ora lo abbandona, segno che il consenso fondato sul carisma è potente ma fragile. Il capitolo finale, con la fuga, la cattura e la morte a Piazzale Loreto, è narrato come un epilogo inevitabile di un dramma tragicomico (si pensi all’arresto ed esecuzione di Starace) che aveva seguito un copione antico: l’ascesa e la caduta del capo, tra l’adorazione e il disprezzo.
Il tono del libro non è mai moralistico. Guerri sembra chiedere al lettore non tanto di giudicare, quanto di capire. Perché storie come quella di Mussolini non sono finite nel 1945: il meccanismo del leader carismatico, della propaganda emotiva, dell’identificazione di massa, è universale e senza tempo. Ecco perché Benito non è solo un libro di storia, ma una lente sul presente. Ogni epoca ha i suoi “mussolinismi”, anche se cambiano le tecnologie e i contesti. L’Italia del Ventennio diventa così un caso di studio per interrogarsi su come le società costruiscono, alimentano e distruggono i propri miti.
La scrittura, pur appoggiandosi a una documentazione rigorosa, è fluida e visiva. Ci sono pagine che scorrono come un romanzo, altre che si fermano su dettagli significativi: un discorso improvvisato, una fotografia ufficiale, un gesto studiato. Questo equilibrio tra microstoria e macrostoria rende il libro accessibile anche a chi non ha familiarità con il periodo. Allo stesso tempo, chi conosce già il tema trova spunti interpretativi che vanno oltre la cronaca.
Non mancano limiti: chi cerca rivelazioni clamorose potrebbe restare deluso, perché il libro non punta a svelare documenti inediti ma a rielaborare ciò che sappiamo in una cornice coerente e incisiva. E il formato, grande e pesante, rende la lettura più da tavolo che da viaggio. Ma queste sono considerazioni personali rispetto alla forza del progetto.
Alla fine, la sensazione che lascia Benito. Storia di un italiano è duplice. Da un lato, la chiarezza di aver attraversato, con uno sguardo inedito, una delle vicende più complesse del Novecento italiano. Dall’altro, un’inquietudine sottile: la consapevolezza che ciò che è accaduto non appartiene solo al passato, ma a una trama ricorrente della storia umana. La combinazione di ambizione individuale, bisogni collettivi e strumenti di comunicazione può, in determinate condizioni, generare leader che diventano simboli, simboli che diventano idoli, e idoli che finiscono in frantumi.
Guerri, con questo libro, non scrive soltanto la biografia di Mussolini. Scrive un capitolo della biografia dell’Italia. E, in filigrana, ci invita a riflettere sulla biografia di ogni popolo: su come scegliamo i nostri leader, su come li seguiamo, su come li lasciamo cadere. Il lettore, chiudendo l’ultima pagina, non si chiede solo chi fosse davvero Benito Mussolini, ma anche chi siamo noi, oggi, di fronte alle nuove forme di carisma e potere.

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