Federico Rampini ha scritto un libro che, se fosse arrivato sulle scrivanie dei diplomatici di mezzo secolo fa, sarebbe stato accolto come un manuale per decifrare il mondo arabo dopo la decolonizzazione. Ma siccome arriva oggi, in un tempo in cui l’attenzione media degli occidentali è più corta di un titolo di TikTok, rischia di venire liquidato come l’ennesima “geopolitica da scaffale”. Sarebbe un errore. Il nuovo Impero Arabo non è solo un libro: è una lente d’ingrandimento puntata su un mosaico che noi europei, spesso distratti, preferiamo guardare di sfuggita.
Rampini ci dice subito, senza giri di parole, che l’“impero” di cui parla non è una costruzione politica sul modello di Roma o di Londra. È piuttosto una rete di potere, di denaro e di religione che ha nel Golfo Persico il suo cuore pulsante e nelle sue appendici africane e asiatiche i tentacoli. Gli Emirati, l’Arabia Saudita, il Qatar: minuscoli staterelli se guardati sulla carta geografica, ma colossi se guardati al microscopio della finanza, dell’energia e della diplomazia contemporanea.
Ora, Rampini è uno che la storia l’ha masticata sul campo, da corrispondente in mezzo mondo. Non indulge mai nella retorica, non si perde in compiacimenti. Eppure la sua scrittura è chiara, quasi didascalica, come se parlasse a una platea di studenti liceali più che a professori universitari. È il suo pregio: far arrivare concetti complessi a chiunque, senza mai annacquarli.
Il libro prende avvio da una constatazione: il mondo arabo non è affatto morto, come molti si erano illusi dopo le “Primavere arabe” finite in inverno. Anzi, dalle macerie di quelle rivolte è emersa una nuova aristocrazia del potere, molto meno romantica e molto più cinica, che ha imparato a trattare con gli americani, con i cinesi, e perfino con i russi, in un gioco d’equilibrio che ricorda quello dei Medici con le corti rinascimentali.
Rampini descrive con precisione i capitali arabi che si riversano su Milano, Londra, Parigi: i grattacieli di Doha non sono solo architettura, sono strumenti di influenza. Ogni centro commerciale scintillante del Golfo è, in realtà, un avamposto politico. Ed è qui che la sua prosa diventa tagliente, quasi montanelliana: quando ci ricorda che noi occidentali, pur di continuare a comprare gas e vendere armi, abbiamo chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti umani che, se commesse altrove, avrebbero scatenato editoriali indignati e mozioni parlamentari. Con gli arabi del Golfo no: lì ci limitiamo a sorridere, a stringere mani, a firmare contratti.
C’è un passaggio, nel libro, che suona come una frustata: la descrizione della nuova Mecca finanziaria globale che non è più New York né Londra, ma Dubai. Rampini non la celebra, la smonta pezzo per pezzo ma allo stesso tempo ne constata la grandezza: dietro lo scintillio degli hotel a sette stelle c’è una manodopera semi-schiava importata dal Bangladesh, dall’India, dal Pakistan. A differenza delle vecchie colonie europee, qui non c’è un governatore coloniale da criticare: ci sono sceicchi sorridenti che si comprano squadre di calcio, riviste di moda, persino università.
Rampini, con penna controllata e caustica, ci dice di stare attenti a non scambiare i petrodollari per civiltà.
Il libro poi si sposta sulla geopolitica spicciola. L’Arabia Saudita, per esempio, è raccontata non come un Paese ancorato a tradizioni immutabili, ma come una monarchia che ha intrapreso un processo di modernizzazione selettiva: cinema, turismo, grandi eventi sportivi. Ma attenzione: non è liberalismo, è marketing. La Sharia resta lì, la repressione pure. Solo che oggi si vende meglio, confezionata in PowerPoint e sponsorizzata dai guru della Silicon Valley.
Un altro capitolo incisivo è quello dedicato al rapporto fra i nuovi imperi arabi e le potenze asiatiche. Rampini ci ricorda che la Cina ha puntato forte sul Golfo, stringendo accordi energetici che potrebbero, nel giro di un decennio, ridisegnare le rotte strategiche globali. E che gli Stati Uniti, pur indeboliti, non sono affatto usciti di scena: hanno semplicemente imparato a convivere con alleati che un tempo trattavano da protettorati.
La parte più acuta del libro, almeno a mio giudizio, è quella in cui Rampini analizza il cortocircuito tra modernizzazione economica e immobilismo politico. Gli arabi del Golfo hanno importato tecnologia, università, lusso. Ma hanno lasciato chiusi a doppia mandata i cassetti delle libertà politiche. È un equilibrio instabile, ma per ora funziona: le popolazioni sono tenute a bada da stipendi generosi e da spettacoli di intrattenimento che hanno sostituito la contestazione politica. Un “panem et circenses” rivisitato in salsa araba.
Qui la prosa di Rampini si fa quasi profetica. Ci avverte che il nostro futuro, quello degli europei indebitati e divisi, dipende più dai capricci del Golfo che dai decreti di Bruxelles. Se domani gli sceicchi decidessero di spostare i loro investimenti dall’Italia alla Cina, interi quartieri di Milano potrebbero sprofondare nell’oblio. È una dipendenza silenziosa, subdola, che nessuno ammette, ma che tutti subiscono.
E allora qual è la lezione del libro? Rampini non dà ricette, non ne ha mai date. Ma la sua diagnosi è chiara: se non smettiamo di trattare il mondo arabo come un bancomat, finirà che saremo noi a dover rendere conto a loro, e non il contrario.
Il pregio maggiore di Il nuovo impero arabo è che non è un saggio accademico. È giornalismo narrativo, che mescola aneddoti e dati, reportage e storia. Mentre il difetto è che Rampini tende a dipingere il quadro con tinte fosche sugli aspetti sociali delle donne nella realtà araba. A quasi tre quarti dello scorrevole volume accade l’impensabile, Rampini si lancia su una inutile, quantomeno personale (mediante la presenza della moglie) considerazione sulla situazione dei diritti femminili nella Ksa, quasi fosse un passo obbligato per la lettura del termometro democratico. Un capitolo veramente inutile, magari più voluto dalla casa editrice che dall’autore. Non aggiunge nulla che non siano considerazioni soggettive e rimarca con insistenza la mancanza di “libertà” estetica, sociale e professionale delle donne. Forse era meglio non scrivere nulla al riguardo se l’intento era di permearlo di proprie sentenze che stonano totalmente con la trama principale del libro.
In definitiva, questo libro è un invito a guardare in faccia una realtà scomoda: il mondo arabo non è più la periferia turbolenta dell’Occidente, ma un centro di potere che detta l’agenda globale. Ignorarlo, o ridurlo a cliché, sarebbe un errore culturale e politico.
Rampini ci ha consegnato uno specchio, e non tutti avranno il coraggio di guardarcisi dentro.

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