venerdì 21 ottobre 2022

Michael Lind- La nuova lotta di Classe

Da quando il pluralismo democratico è stato sostituito con il neoliberismo tecnocratico? Come è potuto accadere che partiti legati ad organizzazioni locali supportati dalle masse abbiano potuto lasciar spazio al controllo da parte di donatori e consulenti dei media? 

La corruzione e i partiti che la rappresentano hanno continuato ad ignorare gli interessi del popolo e in particolare della classe operaia che, estraniata dalla crescente economia riservata ormai a ceti e classi ben inquadrate, si è trovata a rivolgersi verso improbabili paladini demagoghi populisti del calibro di Donald Trump, Nigel Farage, Boris Johnson, Marine Le Pen e nel nostro caso, un Centro Destra che è appena subentrato al governo.


L’argomento è più attuale che mai e ha bisogno di introspezione, analisi e chiarezza, proprio come il contenuto di questo libro edito dalla Luiss. Lo scontro tra establishment e populisti si è tradotto in accuse reciproche che spingono la preoccupata classe agiata, collusa con la politica e proprietaria di numerosi canali d’informazione, a calcare sul pericolo  stesso del populismo, sull’egocentrismo, la corruzione e razzismo dei loro rappresentanti, se non mettendoli sullo stesso piano di Mussolini e Hitler

In tutta questa confusione farsi un’opinione diventa compito faticoso e comprendere la successione di accadimenti e il futuro dell’Italia diventa ancora più ostico; ecco perché questo volume ci viene in soccorso nell’approfondire eventi chiave e sfumature non sempre così intuibili e scontati.


Già dai primi capitoli si entra nel vivo della questione. La società che viviamo in tempi così incerti è figlia di conseguenze per lo più inaspettate ma nonostante tutto attese, se già George Orwell ci ricordava nel 1946 la tesi di Burnham del 1941, attraverso queste parole: << Ad amministrare questa nuova società sarà il popolo, che ne controllerà in modo efficace i mezzi di produzione: mi riferisco a dirigenti d’affari, tecnici, burocrati […] raggruppati da Burnham sotto l’etichetta collettiva di ‘manager’>>. Non è un caso che proprio gli aristocratici premoderni che sopravvivono nell’Occidente odierno siano perlopiù camuffati da professionisti e manager molto indaffarati. Alla fine si tratta di una classe di ereditieri stabile e immutabile che caratterizza un pò tutte le democrazie, senza scordare che i figli della classe manageriale di chi ha un’istruzione universitaria è in parte ereditiera, sebbene resti aperta anche ai talenti che si elevano dal basso, così da porre un velo di democratica opportunità ad una meritocrazia che di fatto non esiste. 

In contrapposizione a questa trasmissione ereditiera delle classi elitarie troviamo le classi medio-basse o in povertà assoluta che in un articolo de La Repubblica del 18 ottobre 2022 viene col titolo ‘La povertà si eredita’, ricavato dal Rapporto Caritas 2022 nel quale emerge che: “essere poveri da bambini è altamente predittivo dell’esserlo anche da adulti”. 


Questa situazione che si trascina ormai da decadi trova terreno fertile nell’immutabile atteggiamento divergente da parte della classe dei lavoratori che invece di votare compatta contro la “superclasse”, resta invece divisa per molteplici ragioni di natura religiosa, regionale, razziale, etnica e ideologica, a vantaggio totale delle élite manageriali, paradossalmente di gran lunga meno numerose. Elemento indubbiamente caratterizzante di questo dissenso che tiene divise le classi operaie è la rivalità per i posti di lavoro, servizi pubblici e status locale di chi proviene da altre zone in cerca di occupazione. 

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Siamo una società dominata da élite capitaliste e manageriali che caldeggiano un neoliberismo globalista secondo cui l’economia dovrebbe essere governata sulla base della massima flessibilità per le imprese, in un libero mercato della manodopera e degli altri input produttivi. Il fallimento di questa visione è più che mai evidente nella recessione in atto dove la libertà di mercato si è trasformata in anarchica speculazione e la flessibilità per le imprese si è tradotta nella schiena spezzata della classe operaia, in qualche modo tradendo le aspettative di uguaglianza auspicate nel Secolo Breve.


Mai come oggi le forze in campo sono estese al massimo della tensione e non sarebbe scorretto ricordare le parole di Chamberlain: “La democrazia è ciò che si ottiene quando si è in presenza di uno stato di tensione che non consente a un gruppo di osare di candidarsi al potere assoluto”. Infatti la democrazia è un diritto che va rinnovato e perseguito con coscienza perché in quanto tale si espone sempre ai pericoli della tirannia. Le subdole forme di abuso, in tal senso, sono oggigiorno patrocinate dai canali mediatici, proprio come lo erano nei fasti dei totalitarismi, e sarebbe una buona pratica quella di non lasciar cadere nell’oblio i fatti che hanno caratterizzato quegli anni bui, rinnovando il ricordo attraverso iniziative culturali e scolastiche. 

Oggi più che mai le instabilità e incertezze sociali, oltre ai sempre più accentuati divari di classe, fanno emergere come i membri della “superclasse manageriale” non siano propensi a dividere il potere, ricchezza e autorità culturale con miseri esponenti della classe operaia; men che mai con i loro rappresentanti sindacalisti, politici provinciali o autorità religiose dalle quali sono infine riuscite ad affrancarsi.


Quella che viviamo oggi è una sintesi tra il liberismo economico della destra libertaria, favorevole al libero mercato, e il liberismo culturale della sinistra accademica/bohemien, dal quale è materialmente esclusa la classe dei lavoratori e i ceti meno abbienti, ormai confinati ai margini di una società che cerca di recluderli a status di “ceti assistenziali” i cui animi di una probabile giusta rivolta vengono sedati con sedicenti bonus per calmierare le loro ire rivoluzionarie. 

D’altronde la minacciosa stagflazione che andiamo ad affrontare non è una novità nel passato delle democrazie e nell’esperienza delle classi sociali che ne attua le soluzioni attuali. Senza tanti giri di parole, ricordano le scelte dei dirigenti politici neoliberisti che smantellarono le strutture base del sistema post Seconda Guerra Mondiale, indebolendo la manodopera organizzata nel settore privato e dando impulso agli utili di grandi aziende, invece che spingere verso un’innovazione tecnologica e investimenti sostenuti dai governi. Si finì per arricchire pochi a scapito di molti, in pratica la cura neoliberista per la stagflazione fu peggiore della malattia. 

L’abbattimento delle regolamentazione e l’indebolimento delle organizzazioni dei lavoratori nelle rispettive nazioni contribuirono ad accrescere ulteriormente i margini di profitto delle aziende che anche tramite l’arbitraggio fiscale, riuscirono a sfruttare le differenze nella tassazione e nei sussidi tra Paesi diversi, in modo da aumentare i profitti senza incrementare alcuna produttività, agevolando quelle aree del mondo che oggi conosciamo come Paradisi Fiscali.


Ormai la politica dei “partiti”, sempre più disconnessa dalla società, persegue una forma di competizione totalmente priva di senso, che non sembra neanche sostenere più la democrazia nella sua forma attuale, ridotte a poco più che etichette per campagne elettorali dalla dubbia credibilità. Non è un caso l’assenteismo elettorale a fronte di questa situazione, un campanello d’allarme che non sembra preoccupare l’establishment politico e manageriale, ma che racconta chiaramente un disagio tangibile della spaccatura sociale vissuta dal paese, nonché dall’Europa. Diradatasi la polvere a seguito del rimpasto strutturale post-bellico le istituzioni di partiti di massa e religiosi, sindacati e associazioni civili nate dal basso che ben si legavano alla classe dei lavoratori sono state indebolite o smantellate, lasciandole senza più voce negli affari pubblici con un’unica valvola di sfogo: la protesta!


Da tutto questo traggono beneficio sedicenti outsider dell’establishment come Berlusconi, Salvini, Trump o Farage. Più vengono additati dalle élite occidentali come paladini della classe dei lavoratori più diventa plausibile il loro consenso e affermazione al potere, visti anche loro come esclusi dal cerchio della “superclasse manageriale” proprio come i loro elettori che non appartengono ad alcuna élite. Quello che non appare chiaro alle masse è che il populismo è un sintomo di un corpo malato, non una cura

Alla fine è indifferente a chi verrà consegnata la vittoria tra insider o outsider, ci rimetterà comunque la maggioranza del popolo, ancora una volta alla mercé delle istituzioni sorde al grido del malessere che pervade sempre più le disuguaglianze sociali in essere. Siamo di fronte a vere e proprie democrazie decadenti sotto il giogo di fazioni oligarchiche il cui unico scopo sembra quello di estraniare il popolo dalle decisioni che le riguardano, salvo lasciarle una valvola di sfogo rappresentata da tornate elettorali sempre meno rappresentative, mentre una rabbia sempre più incontrollata ormai non serpeggia più ma scorre letteralmente come un fiume in piena, pronto a straripare in ogni momento.


Appare ormai chiaro che la democrazia liberale non è messa a rischio da macchinazioni russe o rinascite del fascismo, la demagogia populista è una risposta autoimmune della malattia degenerativa provocata dall’oligarchia regnante. Il pericolo più grande per le democrazie occidentali è il graduale declino di politici ben istruiti, educati e finanziati, verso la trasformazione in qualcosa di più simile ai regimi oligarchici oppressivi che sono la causa delle rivolte populiste. 

A questo punto è auspicabile l’instaurazione di un pluralismo democratico e l’abbandono da parte delle élite manageriali del neoliberismo tecnocratico, che soprattutto in Italia ha caratterizzato gli ultimi quindici anni di governo. È necessaria una collaborazione e armonia tra aziende e manodopera per appianare divergenze che da lungo tempo paiono insanabili. Si rivela ormai necessaria la disponibilità a tendere una mano da entrambe le parti, anche a fronte delle incessanti sfide esterne che minacciano seriamente gli interessi economici e territoriali del paese. 


Michael Lind sintetizza con chiara lucidità le proprie conclusioni. Le élite manageriali devono ridimensionare il proprio ruolo il cui unico effetto è una risposta populista proporzionale ai propri eccessi. Deve instaurarsi un compromesso che si traduca in un nuovo equilibrio che tenga conto della classe dei lavoratori nei tre grandi rami del paese: politica, economia e cultura. Se non si dirige l’Occidente verso un bilanciamento delle classi il suo destino è assomigliare sempre più al Brasile o Messico, oligarchie nepotiste circondate da territori e aree degradate, se non disabitate, figlie di un netto sbilanciamento tra classe operaia senza voce politica e un monopolio di ricchezza, potere politico, media e autorità accademica da parte di un’esigua minoranza manageriale detentrice di tutto il potere. I tempi sono ormai maturi per ripartire dal basso e appianare le disuguaglianze che dilagano tra le società democratiche, nella speranza che le mani tese al dialogo non vengano tagliate in nome di una avida minoranza assetata di potere.

 

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